Innovativa è la recentissima pronuncia della sesta sezione penale della Corte di Cassazione, resa in un giudizio avente ad oggetto i proventi lucrati dalla mediazione sulla fornitura delle mascherine antiCovid dalle società cinesi, contabilizzati nel 2020 e successivamente sottoposti a sequestro. La pronuncia si segnala perché, sfruttando il silenzio normativo, adotta un importante principio di diritto quale esito di un giudizio di bilanciamento tra impianto punitivo e salvaguardia dell’iniziativa economica.
Nello specifico la Corte evidenzia, in primis, come la disciplina dettata in tema di responsabilità degli enti ex d.lgs. n. 231/2001 non contenga alcuna disposizione che consenta espressamente la possibilità di svincolare parzialmente le somme sequestrate a fini di confisca per pagare le imposte sui redditi illecitamente lucrati a mezzo della commissione del reato presupposto. Partendo da questo dato opera, quindi, un’interpretazione costituzionalmente orientata del principio di proporzionalità della misura cautelare affermando che il dissequestro parziale delle somme in sequestro per pagare il debito tributario debba essere consentito, «se necessario a evitare, per effetto dell’applicazione del sequestro preventivo e dell’inderogabile incidenza dell’obbligo tributario, la cessazione definitiva dell’esercizio dell’attività dell’ente prima della definizione del processo».
Il condivisibile ragionamento che supporta la decisione in esame mira a evitare che il sequestro finalizzato alla confisca si traduca, già in sede cautelare, in una forma di interdizione definitiva dall’attività (ex art. 16, 3 co) indipendentemente da un’affermazione definitiva di responsabilità dell’ente, così comprimendo in maniera sproporzionata la libertà di esercizio dell’attività d’impresa, del diritto di proprietà, del diritto al lavoro, in violazione dei supremi principi costituzionali ed eurounitari e mettendo a rischio la stessa esistenza giuridica dell’ente.
Ma vi è di più: secondo la Corte, negare il dissequestro delle somme equivarrebbe a sovrapporre ingiustificatamente gli effetti di misure cautelari che sono strutturalmente e funzionalmente distinte all’interno della disciplina dettata dal d.lgs. n. 231 del 2001, ovvero il sequestro preventivo finalizzato alla confisca (art. 53) e l’interdizione dall’esercizio dell’attività (artt. 9, 2 co. lett. a) e 45).
La sentenza, inoltre, richiamando il principio della proporzionalità e gradualità delle pene, ricorda come la misura interdittiva costituisca l’extrema ratio, potendo essere disposta in via cautelare solo se ogni altra misura risulti inadeguata (art. 46, 3 co.).
Ma vi è anche un ulteriore problema: in relazione al delitto presupposto di traffico di influenze illecite contestato (art. 25, 1 co.), il legislatore non ammette l’applicazione di misure interdittive in via cautelare, per cui eseguire tale misura in contrasto con una previsione normativa andrebbe in contrasto con il principio di legalità.
Inoltre, l’art. 46, 2 co., del decreto stabilisce che ogni misura cautelare deve essere proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che si ritiene possa essere applicata all’ente.
La valutazione di proporzionalità della pena, avente fondamento nazionale e sovranazionale, è effettuata in astratto dal legislatore nella previsione a monte di un determinato apparato sanzionatorio e a valle e in concreto dal giudice, attraverso l’applicazione della pena nel caso specifico.
La giurisprudenza di legittimità è concorde nel ritenere che, in attuazione del canone di proporzionalità, il giudice, quando dispone una misura cautelare interdittiva o procede alla nomina del commissario giudiziale, debba limitare, ove possibile, l’efficacia del provvedimento alla specifica attività della persona giuridica alla quale si riferisce l’illecito. Inoltre, come precisa la pronuncia, è pacifico che tale principio operi come limite non esclusivamente nella fase genetica ma anche in tutta la fase dell’efficacia della misura cautelare, consentendo al giudice “di graduare e modellare il contenuto del vincolo imposto, anche in relazione alle sopravvenienze che possono intervenire, affinché lo stesso non comporti restrizioni più incisive dei diritti fondamentali rispetto a quelli strettamente funzionali a tutelare le esigenze cautelari da soddisfare nel caso di specie”.
Il principio di proporzionalità e di gradualità della pena non deve, in sostanza, comportare sacrifici maggiori di quanto strettamente necessario rispetto al fine perseguito.
Con specifico riferimento al sequestro preventivo finalizzato alla confisca, il canone di proporzionalità deve, pertanto, orientare il giudice nella modulazione del vincolo in modo da evitare che lo stesso possa tradursi in un’esasperata compressione del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica dell’ente attinto dal vincolo reale, andando ben oltre il fine perseguito, addirittura inibendo del tutto l’operatività economica del soggetto attinto dal sequestro, sino a determinarne la paralisi o la cessazione definitiva.
Ritiene, dunque, il Collegio che, «in attuazione del principio di proporzionalità della misura cautelare, il giudice possa autorizzare il dissequestro parziale delle somme sottoposte a sequestro preventivo finalizzato alla confisca per consentire all’ente di pagare le imposte dovute sulle medesime quale profitto di attività illecite, quando l’entità del vincolo reale disposto, pur legittimamente determinato in misura corrispondente al prezzo o al profitto del reato rischi di determinare, anche in ragione dell’incidenza dell’obbligo tributario, già prima della definizione del processo, la cessazione definitiva dell’esercizio dell’attività dell’ente». In tali specifici casi «lo svincolo parziale delle somme sequestrate deve ritenersi ammesso alla stringente condizione della dimostrazione di un sequestro finalizzato alla confisca che, nella sua concreta dimensione afflittiva, metta in pericolo la operatività corrente e, dunque, la sussistenza stessa del soggetto economico e al solo limitato fine di pagare il debito tributario, con vincolo espresso di destinazione e pagamento in forme “controllate”». Tali conclusioni, supportate dal dato normativo e, ancor prima, dai precetti costituzionali, sembrano quelle che meglio coniugano il sistema della responsabilità amministrativada reato con i valori fondamentali dell’ordinamento, da un lato scongiurando il rischio di impunità e dall’altro evitando una paralisi dell’ordinaria attività aziendale a danno della continuità e dello sviluppo del sistema economico.