Lo studio “1_2023 B”, elaborato dalla Commissione Antiriciclaggio del Consiglio Nazionale del Notariato ed approvato lo scorso 9.2.23 è stato concepito come vademecum “qualificato” per permettere ai soggetti obbligati di trovare risposte adeguate ai frequenti interrogativi che si affrontano in fase di individuazione e successiva identificazione del titolare effettivo di un soggetto giuridico diverso da una persona fisica.
Il pur apprezzabile sforzo compiuto, ammettendo gli stessi autori che troppe sono le questioni ancora aperte a livello normativo, non riesce a raggiungere l’obiettivo contenuto nelle premesse dell’abstract del documento.
Al netto delle implicazioni sociologiche sulla genesi del concetto di beneficial owner – che poco interessano alla più pragmatica Commissione UE che ha diffuso l’imperativo categorico “il TE va trovato ed identificato!” – lo studio “1_2023 B” non ha indugiato sui criteri di individuazione analizzandoli tutti: 1) proprietà, 2) controllo e 3) criterio residuale.
A parere di chi scrive vale la pena soffermarsi sul primo di detti criteri se non altro perché, da subito, ha dato luogo – soprattutto con riferimento alla proprietà indiretta – a contrasti interpretativi legati alle modalità di individuazione della soglia di partecipazione tra i desiderata dell’Autorità di Vigilanza (e della longa manus della Polizia Valutaria) e l’approccio restrittivo, legato all’uso del (de)moltiplicatore che inevitabilmente limita la cerchia dei titolari effettivi.
La modalità di calcolo della soglia del 25% (+1) di partecipazione al capitale resta l’elemento cruciale attorno al quale ruota l’applicazione del criterio, ovviamente, per tutti i frequenti casi in cui a monte della società cliente ci sia una catena partecipativa particolarmente complessa.
Se, pertanto, non si pongono problemi in caso di proprietà diretta, quando alla determinazione della proprietà di tale soglia debba arrivarsi individuando la persona fisica che la possiede per il tramite di società controllate, lo studio in parola sembra lasciarsi “ammaliare” dall’esegesi dei testi normativi e dei documenti esaminati in fase di ricerca.
È il caso dell’ipotetico ricorso al 2359 c.c. per cogliere il senso di quel “tramite società controllate”, ritenuto poi dallo stesso studio inutilizzabile perché creerebbe un pericolosa e non voluta commistione tra criteri di individuazione enunciati, sistematicamente e in via gradata, in modo che il ricorso ad uno di essi sancisce l’impossibilità di utilizzare gli altri due disponibili.
Diversamente argomentando troverebbe cittadinanza anche la ricerca e l’analisi di patti parasociali che incidano sul controllo, generando così una non voluta ed inaccettabile commistione di parametri che inchioderebbe il soggetto obbligato ad una versione moderna del supplizio di Tantalo.
Tralasciando quindi, per ragioni puramente editoriali, ogni ulteriore approfondimento che meriterebbe il dibattito dottrinale, probabilmente il ragionamento va focalizzato in termini di risposta da dare al soggetto obbligato.
Quest’ultimo è posto dinanzi alla scelta operativa complessa: caricarsi di un lavoro di indagine (magari superfluo ma) a prova di accertamento censendo chiunque abbia la proprietà del 25% (+1) di una società a monte del cliente (c.d. “buttom up approach”) o assumere il rischio che venga contestata l’omessa adeguata verifica per aver dato seguito ad una modalità di riscontro già nota nel nostro ordinamento (si veda al riguardo il calcolo degli assetti partecipativi ai fini del consolidato fiscale) ricorrendo al (de)moltiplicatore (c.d. “top down up approach”).
Orbene, la strada intrapresa dal Notariato, tutt’altro che coraggiosa, sposa quell’approccio cautelativo che già il CNDCEC aveva adottato nelle Linee Guida emanate per i propri iscritti, richiamate non a caso dagli autori.
Lo Studio, infatti, da atto dell’ambiguità del dettato normativo, sottolineando come l’attuale formulazione del d.lgs. n. 231/2007 (art. 20, co. 2, lett. a. e b.), nell’indicare la percentuale “qualificante” di proprietà, detenuta direttamente o indirettamente, faccia riferimento al “capitale del cliente”, sembrando così propendere, di fatto, per l’approccio “top down”.
Ciononostante, il documento de quo, seppur non in maniera espressa, pare optare per l’approccio “buttom up”. Nella conclusione del paragrafo dedicato al criterio della proprietà, infatti, si lascia intendere che, per ragioni di prudenza, sia preferibile rifugiarsi nel più cautelativo “criterio del moltiplicatore” anche in ragione delle istanze internazionali in merito e dell’assenza di indicazioni precise da parte delle Autorità nazionali.
Ad avviso di chi scrive, agli autori del documento de quo è mancato un po’ di coraggio nell’assumere una posizione legittimamente sorretta dai contenuti del documento medesimo. Si legge, infatti, nelle righe del richiamato paragrafo come un approccio “top down” <<potrebbe ritenersi non frustrante degli obiettivi che si pone la normativa>> e <<consentirebbe di non moltiplicare in modo apodittico il numero di soggetti ascrivibili alla categoria dei titolari effettivi, e quindi di fatto vanificare la portata della norma con una pletora di individui che rischierebbero di mettere in ombra i veri titolari effettivi della società.>>
Concetti assolutamente condivisibili, sicuramente apprezzati dai soggetti obbligati troppo spesso assorbiti da farraginosi formalismi.
Pare, in conclusione, che si sia persa l’ennesima occasione per rappresentare la voce fuori dal coro e avviare un percorso finalizzato ad un nuovo approccio, sì di semplificazione ma, allo stesso tempo, altrettanto coerente con il nobile fine del legislatore di costruire un solido e concreto presidio di contrasto ai fenomeni di riciclaggio e finanziamento del terrorismo.